Mi sono formato in neurologia e psichiatria – negli 1960 e inizio 1970 – quando i pazienti erano considerati non tanto come persone, ma come portatori di sintomi da oggettivizzare. Ho sempre sentito questa trasformazione della persona in una serie distaccata di sintomi come una dimensione in cui non potevo stare. Ho iniziato allora a parlare con i miei pazienti, mettendo la relazione con loro al centro del processo di cura.
Il processo di diagnosi neo-kraepeliniana, che parcellizza sia la struttura teorica, per fortuna sta crollando. Ci rendiamo sempre più conto che la dimensione del rapporto non è eliminabile per la psichiatria perché eliminarla fa del male alla psichiatria stessa.
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